We are very happy to announce that our 18 Theses on Marxism and Animal Liberation are now available in Italian. We would like to thank the editorial board of the international review of ecology and socialism (Rassegna internazionale di Ecologia e Socialismo) Anthropocene.org and especially the translators. You can find the Italian version of our These here as a pdf on their website or below.
18 TESI SUL MARXISMO E LA LIBERAZIONE ANIMALE
Marxismo e la liberazione degli animali sono due cose che, a prima vista, non sembrano avere molto in comune. Né il primo si è fatto notare per essere particolarmente amorevole verso gli animali, né gli amanti degli animali sono noti per aver fatto propria la causa della liberazione della classe operaia e della costruzione di una società socialista.
Al contrario: il marxismo classico attira poche simpatie presso gli attivisti dei diritti degli animali, prevalentemente anarchici ed autonomi. Esso è considerato una teoria semplicistica, una ideologia autoritaria divenuta obsoleta con la fine delle esperienze del «socialismo reale». Sebbene la critica al capitalismo ed il vocabolario del movimento operaio (“compagno”, “classe”) stiano riguadagnando popolarità nella sinistra radicale, non si sa comunque cosa farsene del marxismo tradizionale. I marxisti sono considerati individui che notoriamente odiano gli animali e che parlano solo di economia, spesso indistinguibili dai filistei piccolo-borghesi che non vogliono rinunciare alle loro salsicce alla griglia.
I marxisti, a loro volta, non hanno una particolare considerazione per coloro che combattono per la liberazione animale, visti spesso come strani asceti e moralisti borghesi che impiegano il loro tempo per cause trascurabili, invece di concentrarsi sulle questioni fondamentali. Ci si aspetta che prendano parte alla lotta di classe e si lascino alle spalle quella che considerano una “folle difesa degli animali”. Molti compagni sudano freddo quando riflettono su una società in cui sia gli uomini che gli animali siano liberati dallo sfruttamento e dall’oppressione, poiché significherebbe rinunciare alla loro carne e al loro formaggio. D’altronde, già Friedrich Engels aveva preso in giro gli «Herren Vegetarianer», che sottovalutavano l’importanza dell’uso della carne nella storia della civiltà umana, rappresentando, nella migliore ipotesi, dei socialisti utopisti.
Tuttavia, noi rigettiamo questa opposizione e crediamo che l’analisi storico-materialistica e la critica sociale sviluppate da Karl Marx e Friedrich Engels, le corrispondenti azioni politiche e l’appello per liberare gli animali dalla loro sofferenza socialmente prodotta vadano di pari passo. Da una parte, le rivendicazioni per la liberazione animale sono davvero moralistiche se non analizzano le condizioni storicamente specifiche in cui avviene lo sfruttamento degli animali e quali cambiamenti sociali servono per porvi fine. Dall’altra parte, ogni critica marxista della società è incompleta se non considera il fatto che, per realizzare profitti, le classi dominanti non solo devono sfruttare le classi oppresse nella storia della lotta di classe ma anche e sempre gli animali (e la natura).
Lo sfruttamento dei lavoratori salariati da un lato, e degli animali dall’altro, può presentare differenze qualitative nel modo in cui si è svolto storicamente, e anche il loro rapporto con i mezzi di produzione oggi risulta diverso. Tuttavia, nonostante le differenze, la classe operaia e gli animali hanno una storia comune durante la quale entrambi hanno affrontato la classe dominante in modo antagonistico come esseri sofferenti, umiliati, oppressi e abbandonati; i primi come soggetti, i secondi come oggetti di liberazione. Quindi, noi sosteniamo che l’idea della liberazione animale rimane incoerente quando ripudia la critica storico-materialistica della società. Allo stesso tempo, il marxismo rimane ugualmente incoerente quando rifiuta di riconoscere che oggi la liberazione degli animali deve essere parte integrante della teoria e politica marxiste contemporanee. In primo luogo, l’attuale fase di sviluppo delle forze produttive non solo rende possibile, ma anzi necessaria tale liberazione. In secondo luogo, chiunque aspiri a creare un mondo senza sfruttamento, dominio e sofferenza prodotti socialmente e oggettivamente prevenibili è tenuto a riconoscere anche la sofferenza degli animali e ad adoperarsi per la sua abolizione. Approcci isolati per unire marxismo e liberazione animale si sono già verificati nella storia della sinistra e del movimento operaio. Ma finora non sono stati diffusamente accettati. Le seguenti tesi spiegano perché marxisti e sostenitori della liberazione animale non dovrebbero essere costretti a un matrimonio forzato, ma unirsi in un legame per la difesa della vita.
PERCHE’ L’ANTISPECISMO DEVE ESSERE MARXISTA
I.
La moderna società capitalistica riconosce gli animali solo come portatori materiali di valore e come mezzi di produzione del capitale, come strumenti di lavoro e oggetti di lavoro che sono forniti dalla natura gratuitamente, nella misura in cui non comportano un dispendio di forza lavoro umana per renderli fruibili.
I dirigenti dell’industria della carne, il cuore oggi dell’apparato di sfruttamento degli animali, guadagnano miliardi con l’uccisione di animali. Nella sola Germania, si raggiungono fatturati record fino a quaranta miliardi di euro all’anno macellando oltre sessanta milioni di maiali, tre milioni e mezzo di mucche e settecento milioni di polli, anatre e oche. Anche in Svizzera, il volume delle vendite ammonta a dieci miliardi di franchi svizzeri. Nei circhi e negli zoo, gli animali “esotici” vengono solitamente tenuti in condizioni atroci per eseguire spettacoli strazianti e mortificanti. Durante la caccia, vengono uccisi per il semplice divertimento da cacciatori per lo più enestanti.Negli esperimenti, servono come oggetti di ricerca e lavoro, mentre l’industria degli animali domestici li alleva in numero eccessivo e li vende come giocattoli. Queste condizioni sono orribili e brutali e chiunque ne sia testimone e non abbia un rapporto del tutto alienato con l’ambiente sperimenta almeno una sorta di empatia con quegli esseri senzienti appena li vede in quella situazione.
Di conseguenza, l’impegno a porre fine allo sfruttamento degli animali spesso inizia con l’essere inorriditi dall’uccisione di animali su larga scala e dalla svalutazione ideologica a cui sono sottoposti. Allo stesso tempo, un tale impegno può iniziare con un impulso di solidarietà, alla ricerca di una spiegazione dello sfruttamento e di un modo per abolirlo. L’empatia con la sofferenza degli animali porta quindi a una riflessione teorica sul rapporto tra uomo e animale e stimola l’impulso ad attivarsi nella lotta per la liberazione degli animali. Ma come si manifesta in pratica questo impulso? Esaminiamo la teoria e la pratica dell’attuale movimento di liberazione degli animali.
II.
In poche parole e per semplificare, il movimento contemporaneo per i diritti e la liberazione degli animali nei paesi di lingua tedesca è dominato da una corrente politico-teorica che il filosofo marxista Marco Maurizi definisce «antispecismo metafisico». Si compone di tre principali scuole di pensiero:
Filosofia morale borghese, nella tradizione di Peter Singer, Richard Ryder, Tom Regan, Hilal Sezgin e altri.
Critica liberale del diritto, il cui esponente principale è stato per lungo tempo Gary Francione. Autori come Will Kymlicka e Sue Donaldson si sono uniti a lui di recente.
Antiautoritarismo post-strutturalista social liberale, che si basa sul pensiero di Carol J. Adams, Donna Haraway, Birgit Mütherich, Jacques Derrida e altri.
La filosofia morale antispecista borghese è predominante in una serie di organizzazioni e iniziative, come la PETA, che sollevano richieste politiche per i diritti ed il benessere degli animali e fanno appello ai consumatori, allo stato e alle istituzioni private per mezzo di petizioni, lobbying, campagne, fornendo la consulenza di esperti e così via.
I critici liberali del diritto formano una sorta di ponte teorico e politico tra filosofi morali e anti-autoritarismo. A seconda della loro interpretazione e affinità con una qualsiasi delle due teorie politiche, possono propendere per l’una o per l’altra. Questo spiega anche in una certa misura l’ampio accordo nel movimento per il benessere, i diritti e la liberazione degli animali sul fatto che i diritti degli animali sono davvero un obiettivo per cui lottare. L’antiautoritarismo liberale di sinistra post-strutturalista antispecista fa la sua apparizione politica nelle forme della sinistra extraparlamentare che si ispirano rispettivamente all’autonomia e all’anarchismo. Tale antispecismo rappresenta il nucleo dell’ala abolizionista del movimento per i diritti e la liberazione animale.
III.
La filosofia morale borghese antispecista affronta la questione del perché la sofferenza degli animali è normalmente considerata diversa dalla sofferenza degli esseri umani, o, per essere più precisi: perché tali differenze forniscono la base morale delle azioni.
Di conseguenza, questa corrente prende in esame le comuni giustificazioni per l’uccisione e l’utilizzo di animali, ad esempio che gli animali non “ragionano” e mancano di capacità cognitive, che la sofferenza degli animali è diversa per natura e meno grave della sofferenza umana, e così via. Inoltre, rivela le contraddizioni interne negli argomenti a favore dell’uccisione e dell’uso di animali sottolineando, per es., che non tutti gli animali mancano di abilità cognitive e che non tutti gli esseri umani (ad ogni età, etc.) sono ugualmente in grado di svolgere attività cognitive. Inoltre, anche all’interno della collettività umana, le forme di sofferenza sono così diverse che difficilmente si potrebbe parlare di una sofferenza umana in opposizione a una sofferenza animale. A seguito di tali incongruenze, i sostenitori della filosofia morale antispecista sostengono che non ci sono ragioni plausibili per fare distinzioni moralmente significative tra sofferenza umana e animale. Di conseguenza, si chiedono perché tali distinzioni vengano comunque fatte in pratica. Essi rispondono che ciò è dovuto al fatto che la società umana è permeata dallo specismo, cioè dal presupposto ideologico che la specie umana sia superiore. L’argomento è che, proprio come il razzismo o il sessismo, lo specismo stabilisce confini normativi che non possono essere giustificati e quindi manca di qualunque fondamento effettivo. Secondo Singer, lo specismo - definito come «un pregiudizio o un atteggiamento orientato a favore degli interessi dei membri della propria specie e contro quelli dei membri di altre specie» - sarebbe la causa della «discriminazione» nei confronti degli animali.
I meriti di una tale filosofia morale sono dati dal fatto che l’ideologia specista deve confrontarsi con le proprie pretese insostenibili. Tuttavia, la filosofia morale borghese antispecista presenta anch’essa numerosi problemi. In particolare, non chiarisce perché gli animali vengono sfruttati, perché vengono trasformati in oggetti di utilizzazione economica; piuttosto, spiega come il diverso trattamento degli animali e degli esseri umani sia legittimato e coperto nelle attuali circostanze sociali. Questa è una distinzione importante. Pertanto, la filosofia morale borghese può dirci, per es., quale forma di pensiero giustifica che gli esseri umani non vengano uccisi nei mattatoi e perché nel caso degli animali la macellazione non venga eliminata. Tuttavia non può contribuire in modo sostanziale a spiegare l’origine e la funzione dello sfruttamento animale o, più specificamente, spiegare il mattatoio come attività industrializzata e per quale scopo gli animali vengono uccisi al suo interno. Invece, riduce tutte queste domande ad azioni, punti di vista e pratiche astratti e individuali, in quanto considerati isolatamente dal funzionamento della società capitalistica. Inoltre, tale filosofia morale è astorica. Il suo oggetto è l’ideologia specista della società borghese, qui e ora. È interessata alla storia delle relazioni uomo-animale solo in termini di storia dell’ideologia. In sostanza, non può dirci nulla sull’origine sociale e la genesi dell’ideologia specista.
IV.
La teoria sui diritti animali di ispirazione liberale cerca principalmente di spiegare perché gli animali, a differenza degli esseri umani, non godono di libertà civili, perché sono trattati come oggetti e non come soggetti di diritto. La sua risposta è essenzialmente tautologica: perché gli animali sono definiti dalla legge come proprietà. Seguendo questa linea di argomentazione, poiché gli animali sono normativamente denotati come una proprietà umana, ogni serio conflitto di interessi tra le specie porta poi alla sconfitta delle creature non umane. Lo status degli animali come proprietà prepara quindi la strada allo sfruttamento istituzionalizzato degli animali. A seconda della rispettiva lettura politico-scientifica, il problema è di conseguenza l’assenza di diritti fondamentali, negativi o positivi, analoghi ai diritti umani. I sostenitori di questa teoria concludono che le attuali norme giuridiche si basano su un pregiudizio morale che privilegia gli esseri umani rispetto agli animali, proprio come una volta i bianchi erano stati favoriti rispetto agli schiavi neri. La teoria (liberale) del diritto esclude quindi gli animali dall’essere soggetti di diritti per definizione.
La critica al factum giuridico che gli animali vengono legalmente considerati “cose” e/o “proprietà” di persone fisiche o giuridiche non ha perso oggi la sua validità. Tuttavia, né le norme giuridiche si spiegano da sé, né esse ovvero la teoria del diritto producono lo sfruttamento degli animali. Gli animali non sono solo proprietà privata perché lo dice la legge o perché i giuristi presumono che lo siano. La proprietà privata (dei mezzi di produzione) è legge perché la legge è l’espressione giuridica dei rapporti borghesi di produzione e di scambio. Nel corso della storia della lotta di classe, la classe dominante ha degradato la natura in generale e gli animali in particolare a mezzi di produzione a sua disposizione, ha dato una base giuridica a tale gerarchia e l’ha resa universalmente applicabile. Per questo motivo, oggi per l’uomo è lecito trattare l’animale come sua proprietà. Le norme di legge consentono lo sfruttamento degli animali non tanto perché sono
speciste, ma perché sono borghesi.
Tuttavia, ci sono casi in cui i teorici dei diritti animali hanno contribuito a affinare lo sguardo analitico, nonostante le mistificazioni legalistiche e antispeciste immanenti alle loro posizioni. In particolare, tra le conquiste irrevocabili della critica liberale antispecista c’è quella di aver evidenziato come lo status quo giuridico consenta uno sfruttamento economicamente più efficiente degli animali e allo stesso tempo promuova la necessaria compiacenza politica della società civile - in altre parole, che le norme esistenti sul benessere degli animali garantiscono piuttosto che impedire lo sfruttamento e l’oppressione degli animali.
Pesa ancora di più, quindi, che la teoria dei diritti degli animali sia asservita alle illusioni borghesi sullo stato e sul diritto. I teorici dei diritti degli animali recidono la connessione tra l’economia capitalistica da un lato, la forma borghese di stato e la sua forma giuridica dall’altro, e spacciano quest’ultima come un quadro di riferimento positivo per una politica progressista. Certamente, è legittimo, per quanto possibile, coinvolgere istituzioni e usare norme di legge come strumenti nella lotta contro l’industria animale. Tuttavia, la richiesta di trasformare gli animali in cittadini o soggetti di diritti è ideologica. Ciò è particolarmente vero in considerazione del fatto che, anche tra
gli esseri umani, lo stato e le leggi non garantiscono ma minano la libertà, l’uguaglianza e la fratellanza.
V.
La critica post-strutturalista antispecista del potere procede più o meno allo stesso modo della filosofia morale borghese, ma radicalizza la considerazione etica del rapporto uomo-animali. Tratta principalmente di come ‘l’animale’ sia stato introdotto nel mondo come costrutto sociale e sostiene che questo costrutto viene continuamente riprodotto attraverso, ad es., pubblicazioni religiose, letterarie o giornalistiche e quelle proprie delle scienze naturali e sociali - dalla Bibbia, passando per Descartes sino a Kant. Lo specismo, si sostiene con forza, è il risultato di una costruzione dualistica di società e natura, “il grande discorso occidentale” (Coetzee) dell’umano e dell’animale. Inoltre, i sostenitori di questa corrente sottolineano che, mentre tutte quelle caratteristiche che erano state in qualche modo benefiche per il progresso della civiltà umana - ragione, scienza, volontà, razionalità e così via - sono attribuite alla società, il lato della natura è identificato con tutto ciò che è stato superato e abbandonato in questo processo: spiritualità, pulsioni, affettività, magia e così via. Tale costruzione dualistica continuerebbe all’interno del rapporto tra esseri umani e animali: gli esseri umani sono rappresentati come soggetti ragionevoli e raziocinanti, che stanno al di sopra degli animali, i quali sono rappresentati come creature irragionevoli per natura, soggetti alle loro pulsioni e affetti.
L’uso di questa argomentazione basata sul dualismo è il fondamento della critica post-strutturalista antispecista del potere, attraverso la quale si spiega il predominio politico degli esseri umani sugli animali, il controllo dei primi sui secondi e l’esclusione dei secondi dalla democrazia. Col suo metodo analitico, l’approccio post-strutturalista antispecista differisce poco da quello delle femministe e dagli antirazzisti antiautoritari, che analizzano le pratiche sessiste e razziste in modi simili. Secondo questa prospettiva, il sessismo esiste perché la donna è costruita come una creatura emotiva guidata da sentimenti e che richiede protezione, mentre l’uomo è costruito come un essere razionale, “imperturbabile”, risoluto e in grado di imporsi; la radice del razzismo, a sua volta, comporta la costruzione dell’“altro”, per esempio popoli e religioni degradati allo status di “primitivi” in contrasto con le superiori nazioni occidentali.
La radicalità di tale critica antispecista del potere porta a mostrare il dualismo presente nell’ideologia specista, a considerare questo dualismo uno strumento di dominio politico ed a rifiutare di spacciare la lotta contro un’ideologia come più importante delle lotte contro altre ideologie. Per questo motivo, gli antispecisti che seguono queste teorie si oppongono allo sfruttamento animale con la stessa convinzione con cui si oppongono al sessismo, al razzismo, all’omofobia e a altri meccanismi sociali di esclusione che smentiscono ogni promessa di emancipazione borghese. Questo è anche il motivo per cui la formula dell’« unità dell’oppressione», nota nella sua forma attuale come intersezionalità o «liberazione totale», è così popolare tra loro.
In termini puramente analitici, molte osservazioni dell’antispecismo antiautoritario sono corrette. Il problema è che forniscono semplici descrizioni del discorso dominante sul rapporto uomo-animale e altre forme di oppressione, ma nessuna spiegazione del perché tale rapporto è così com’è, e perché quanto da loro criticato è così predominante. Un antispecismo post-strutturalista antiautoritario può chiarire il carattere del dualismo uomo animale nell’ideologia borghese, cioè come è presente in quanto forma ideologica di pensiero nei discorsi a cui si fa ricorso; non può, tuttavia, determinare l’origine o la funzione di questa ideologia. Non offre alcuna spiegazione riguardo a ciò che ha creato esattamente il dualismo ideologico uomo-animale e cosa lo media. Ogni volta che gli antispecisti antiautoritari alludono a questo punto, la loro analisi diventa confusa. Per questo essa rimane fenomenologica, in fondo puramente formale e, soprattutto, idealista, poiché considera il mero pensiero (sbagliato) il motore della storia. Inoltre, l’approccio dell’«unità dell’oppressione» confonde la questione dell’interrelazione qualitativa tra i diversi tipi di oppressione e la loro genesi con la loro valutazione politico normativa. In definitiva, è capace solo di schemi tautologici di spiegazione: lo specismo nasce quindi dal discorso specista. L’analisi storico-materialistica è per lo più un tabù. La questione della correlazione interna e funzionale tra i rapporti di produzione borghesi e l’ideologia razzista, ad esempio, è confusa con la questione se il capitalismo - in quanto modalità di oppressione - sia, rispetto al razzismo, normativamente peggiore, più grave, o viceversa. Pertanto, già il tentativo di una analisi viene respinto.
VI.
Possiamo così stabilire che sia la filosofia morale antispecista, sia la sua versione più radicalizzata, l’antispecismo antiautoritario, così come la critica liberale del diritto non offrono spiegazioni utili sulla questione dello sfruttamento degli animali e del suo occultamento ideologico. Possono descrivere l’ideologia specista e le norme legali in dettaglio, determinare parallelismi e somiglianze con altre ideologie e norme strutturate in modo simile e anche evidenziare le loro contraddizioni interne. Non possono però dirci come una visione ideologica sugli animali o il loro status di proprietà siano generati e perché nella società capitalistica borghese lo sfruttamento degli animali abbia assunto la forma altamente tecnologica e industrializzata che ha attualmente. In breve: non ci aiutano a capire perché, nell’interesse di chi e come esattamente gli animali vengano sfruttati nella società capitalistica. Tali carenze teoriche producono conseguenze immediate per la prassi politica. Tutti e tre gli approcci si occupano esclusivamente delle modalità funzionali interne al ragionamento specista. Di conseguenza, ogni forma di sfruttamento animale appare loro come il risultato di una coscienza specista. Per essi, la pratica politica diretta alla liberazione degli animali è primariamente una questione di un corretto modo di pensare, di comportamenti morali e di norme legali. Secondo queste scuole di pensiero, la cerchia di amici, il macellaio, il produttore di salsicce, il laboratorio di sperimentazione animale e i suoi lobbisti debbono abbandonare il loro pensiero specista affinché gli animali siano liberati. La prassi sociale è qui soprattutto una questione di coscienza sociale, che è la somma delle coscienze di tutti i suoi individui separati. Lo sfruttamento degli animali e la liberazione degli animali sono ridotti a un problema filosofico, epistemologico e nella migliore delle ipotesi giuridico-teorico. I filosofi morali, i teorici del diritto e gli antiautoritari antispecisti non spiegano realmente che coloro che traggono profitto dallo sfruttamento degli animali hanno un forte interesse a perpetuare le forme attuali di sfruttamento degli animali, né spiegano perché hanno questo interesse.
VII.
È proprio qui che entra in gioco il marxismo. I primi scritti di Marx ed Engels discutono del rapporto tra essere e coscienza, natura e società e anche tra esseri umani e animali. Marx ed Engels si chiedono in che modo forme storicamente specifiche di conoscenza e coscienza siano correlate al modo in cui la società è organizzata - in altre parole, si interrogano su ciò che media essere e coscienza. La loro risposta, grossolanamente semplificata, è che attraverso il lavoro sociale, in rapporti di produzione storicamente determinati, gli esseri umani producono assieme alla loro esistenza materiale la propria coscienza e le condizioni in base alle quali questa coscienza può e deve cambiare. È il lavoro sociale – la trasformazione attiva delle condizioni preesistenti - che plasma sia la natura che il funzionamento della società, creando anche le basi per la comprensione di entrambi. Quindi, secondo Marx ed Engels, dobbiamo guardare cos’è che produce il presunto dualismo tra essere e coscienza, tra società e natura, cosa lo media e influenza, cosa determina il rapporto intrinseco tra esseri umani, società e natura. Esso è il lavoro sociale nella sua rispettiva forma storicamente determinata e pertanto la contraddizione tra la società da un lato e gli animali e la natura dall’altro non si sviluppa semplicemente nella mente delle persone. Piuttosto, il capitalismo come forma storicamente determinata di organizzazione del lavoro sociale produce invece questa contraddizione costantemente, e all’interno del processo di produzione capitalistico gli animali e la natura diventano letteralmente una semplice risorsa da sfruttare.
Questo modo di intendere il rapporto tra esseri umani, società e natura caratterizza il materialismo storico. È una prospettiva materialistica, perché presuppone che l’esistenza sociale costituisca la base della coscienza; e il suo materialismo è storico, perché non considera l’esistenza come fissa e invariabile ma la comprende come un’esistenza prodotta socialmente dagli stessi esseri umani. Esiste anche un materialismo astorico, dal quale Marx ed Engels si dissociarono con forza. Il rapporto tra essere e coscienza non è, dunque, deterministico e schematico. Come sottolinea Engels: «La situazione economica è la base, ma i diversi momenti della soprastruttura – le forme politiche della lotta di classe e i suoi risultati, le costituzioni promulgate dalla classe vittoriosa dopo aver vinto la battaglia, ecc., le forme giuridiche, e persino i riflessi di tutte queste lotte reali nel cervello di coloro che vi partecipano, le teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le concezioni religiose e la loro evoluzione ulteriore sino a costituire un sistema di dogmi – esercitano pure la loro influenza sul corso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano la forma in modo preponderante. Vi è azione e reazione reciproca di tutti questi fattori, ed è attraverso di essi che il movimento economico finisce per affermarsi come elemento necessario in mezzo alla massa infinita di cose accidentali».
VIII.
Se vogliamo spiegare, criticare e abolire lo sfruttamento degli animali, piuttosto che occuparci esclusivamente del modo in cui viene legittimato, dobbiamo affidarci agli strumenti del materialismo storico.
In uno dei loro testi più importanti a questo riguardo, L’ideologia tedesca, Marx ed Engels mostrano come gli esseri umani, passo dopo passo, si siano separati dalla natura reprimendo la natura sia interna che esterna, come abbiano imparato a usare e soggiogare la natura e come in tal modo gli uomini abbiano prodotto la distinzione tra la natura e la società stessa. Secondo questa analisi, gli esseri umani si sono trasformati e addomesticati imparando a dominare la natura esterna e la loro natura interna attraverso il lavoro. Marx ed Engels sottolineano che gli esseri umani erano originariamente animali e che lo rimangono ancora. Tuttavia, attraverso il lavoro sociale, attraverso lo sviluppo sociale della produzione e della distribuzione e attraverso la loro evoluzione storica, gli esseri umani si sono gradualmente differenziati dagli animali. Nelle parole di Marx ed Engels: «Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale». Allo stesso tempo, non verrebbe in mente a Marx ed Engels di «contestare la capacità agli animali di agire secondo un piano, premeditatamente», come scrive Engels nella Dialettica della natura, «ma nessuna preordinata azione di nessun animale è riuscita a imprimere sulla terra il sigillo della sua volontà». Gli esseri umani, quindi, creature naturali, che devono soddisfare bisogni naturali come mangiare, bere e così via, non differiscono in misura sostanziale ma in senso graduale dagli animali, e questa graduale differenza è il risultato della loro propria prassi sociale politico-economica.
IX.
Pertanto, il materialismo storico fornisce un approccio fruttuoso per spiegare la storia e lo sviluppo dei rapporti tra uomo e animale. Essi sono il risultato di un processo di civilizzazione in cui gli esseri umani si sono separati dalla natura attraverso il lavoro sociale differenziandosi dagli animali non-umani. Diversamente dall’antispecismo post-strutturalista, ad esempio, il materialismo storico non solo può descrivere il dualismo tra esseri umani e animali, ma anche spiegarlo. Può identificare il lavoro sociale come l’elemento attraverso il quale questo dualismo è costantemente riprodotto nella pratica. Ne consegue che la percezione ideologica degli animali non è un semplice elemento immaginario, ma è anche vera, in quanto possiede un reale fondamento materiale. Il pensiero specista sugli animali quindi non è la base dello sfruttamento animale, ma piuttosto il riflesso ideologico di quest’ultimo. Marco Maurizi arriva al cuore della questione quando scrive: «Non sfruttiamo gli animali perché li riteniamo inferiori, piuttosto riteniamo che gli animali siano inferiori perché li sfruttiamo». Da ciò segue anche che dobbiamo definire le forme storicamente determinate in cui è organizzato questo rapporto. Dopo tutto, non c’è un lavoro sociale universale che guida il processo di civilizzazione, ma sempre solo lavoro sociale in forme di organizzazione storicamente determinate.
X.
Non sono solo i rapporti politico-economici della società capitalistica odierna che hanno prodotto classi che si confrontano in modo antagonistico, ma anche quelli precedenti. Il conflitto tra le classi, che risulta dai loro interessi opposti, rimane ancora oggi il motore della storia. Perciò il Manifesto del Partito Comunista afferma: «La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi».
Dentro la società di classe borghese-capitalista contemporanea, l’organizzazione del lavoro sociale poggia fondamentalmente su due rapporti sociali: l’organizzazione del lavoro attraverso il mercato - il lavoro è una merce - e i rapporti di classe: lavoratori e capitalisti si confrontano nel processo di produzione. I capitalisti possiedono i mezzi di produzione (o il capitale necessario per la loro acquisizione), quindi acquistano strumenti di lavoro, oggetti di lavoro e forza-lavoro (quest’ultima offerta dai lavoratori salariati che non hanno altro da vendere) e li impiegano nel processo di produzione. Il prodotto assume la forma di merce, che viene venduta per ottenere un profitto.Tuttavia, questo profitto, la cui accumulazione è la ragione e lo scopo della produzione capitalistica, non cade semplicemente dal cielo. Si può ottenere solo sfruttando i lavoratori, i quali lavorano oltre il punto in cui hanno prodotto un valore equivalente al loro salario. Essi producono così un surplus che non è a loro disposizione ma a disposizione dei capitalisti. I capitalisti, scrive Marx nel terzo volume di Capitale, «costituiscono una vera massoneria nei confronti della classe operaia».
Pertanto, dato che ci sono sia sfruttatori che sfruttati nella società capitalistica, non è l’intera specie umana che sfrutta gli animali. Invece, lo sfruttamento degli animali e dei lavoratori salariati avviene prima di tutto seguendo gli interessi e sotto la direzione della classe dominate. Certo, lo sfruttamento degli animali e lo sfruttamento dei lavoratori salariati differiscono qualitativamente, e questi ultimi non agiscono necessariamente in solidarietà con gli animali per il fatto di essere anch’essi oppressi e sfruttati. I lavoratori nei mattatoi uccidono gli animali. Ma i rapporti di produzione capitalistici non si basano solo su un antagonismo tra i capitalisti e la classe operaia, ma anche tra la classe dominante, la natura e gli animali. Ciò conduce allo sfruttamento degli animali organizzato a livello industriale allo scopo di trarne grandi profitti. Di conseguenza, come scrive Marx, «La visione della natura che si ottiene sotto il dominio della proprietà privata e del denaro è un vero disprezzo e un pratico degrado della natura», ed essa comprende ovviamente gli animali. Per rispondere alla domanda sul perché non solo i lavoratori sono sfruttati sotto il capitalismo ma anche gli animali - sebbene in un modo qualitativamente diverso - si devono esaminare la posizione e la funzione ereditate dagli animali in questa forma di organizzazione del lavoro sociale, e quindi la specifica forma capitalistica dello sfruttamento animale.
XI.
Gli animali non prendono parte immediatamente ai rapporti sociali caratteristici del capitalismo come individui attivi; non acquistano né vendono nulla sul mercato, nemmeno il loro lavoro. In cambio del loro dispendio di lavoro nel processo di produzione non ricevono un salario. Di conseguenza, gli animali non producono plusvalore e non fanno parte della classe operaia. Il loro sfruttamento corrisponde a quello che Marx descrive come sfruttamento della natura: in virtù dei diritti di proprietà borghesi e del potere economico a loro disposizione, i capitalisti traggono profitto dal rovinoso trattamento degli animali e della natura. Questo non è sfruttamento nel senso della teoria del valore-lavoro. Ma Marx non limita la nozione di sfruttamento alla produzione di plusvalore, e certamente dall’osservazione che anche gli schiavi non producono plusvalore non conclude che essi non vengano sfruttati.
Non potendo gli animali resistere in modo organizzato, ci si appropria di loro come di altri materiali naturali, allo scopo di renderli mezzi di produzione liberamente disponibili, cioè strumenti di lavoro (come se fossero macchine per la produzione di uova, latte, carne e così via) e oggetti di lavoro (cuoio, carne per ulteriori lavorazioni e così via). I lavoratori salariati eseguono nella pratica questa appropriazione spesso violenta. Realizzano, sotto il comando del capitale, la produzione di plusvalore, che nell’industria animale comprende l’uccisione e la mungitura, nonché la pratica della vivisezione e cose simili. I prodotti che derivano dall’impiego degli animali o che si identificano con loro stessi vengono ulteriormente trasformati da lavoratori salariati e sono infine venduti come merci. La produzione di profitti quindi non si basa solo sullo sfruttamento dei lavoratori salariati, ma anche su quello degli animali in particolare e della natura in generale. Allo scopo di massimizzare i profitti realizzati attraverso lo sfruttamento degli animali, i capitalisti si sforzano di integrare gli animali nel processo di produzione nel modo più efficiente possibile. Efficiente significa anche astraendo dalle loro qualità, tra cui la capacità di soffrire.
XII.
Da tutto ciò segue per noi che solo un antispecismo storico e materialista si dimostra in grado di spiegare e analizzare in modo completo i rapporti uomo-animale, che a un esame più attento si rivelano oggi come rapporti di sfruttamento e dominio tra il capitale da un lato e il proletariato, gli animali e la natura dall’altro. Un antispecismo storico e materialista apre nuove prospettive per l’analisi e la critica della società di classe borghese, e individua aree in cui l’ordine capitalistico si rivela vulnerabile, sulle quali è necessario far leva per liberare gli animali dallo sfruttamento. Non si può concludere, infatti, in base a una critica dell’economia politica, che gli animali sarebbero automaticamente liberati all’interno di una società socialista o comunista. Tuttavia, la lotta contro il dominio del capitale e il suo processo di espropriazione sono presupposti necessari per consentire alle persone di prendere collettivamente la decisione: liberiamo gli animali! Finché persisteranno i rapporti di produzione capitalistici e con essi il controllo della classe dominante su ciò che viene prodotto, nonché il come e con quali mezzi, il capitale si approprierà della natura e incorporerà tutto nel processo di valorizzazione dal quale non ci si può salvare ed al quale non ci si può opporre.
PERCHE’ IL MARXISMO DEVE ESSERE ANTISPECISTA
XIII.
Per i marxisti, molto di ciò che è stato detto finora non è nuovo. Il materialismo storico e la critica marxiana dell’economia politica sono dopo tutto il principio guida delle loro analisi economiche e politiche. Potrebbero quindi alzare le spalle e dire ai fautori della liberazione animale: ben detto! Ora smettetela con il moralismo e iniziate a combattere il capitalismo con noi. E avrebbero buone ragioni.
Pensiamo, tuttavia, che se si prende sul serio il materialismo storico, si deve riconoscere che gli esseri umani e gli animali non hanno solo una storia condivisa; le classi e gli animali oppressi e sfruttati hanno, soprattutto, lo stesso nemico, che trae profitto dal loro sfruttamento, è responsabile del loro sfruttamento, mentre, nel contempo, organizza in modi diversi la loro oppressione: ossia, la classe dominante. Inoltre, i marxisti devono riconoscere che, a causa dei suoi dannosi effetti sociali ed ecologici, l’attuale portata della produzione animale è oggettivamente irrazionale e ostacola il progresso sociale.
XIV.
L’attuale livello di sviluppo delle forze produttive non ci consente solo di pensare di risolvere la sofferenza degli animali socialmente prodotta e di porre la questione di includerli nella lotta per la liberazione. Uno sguardo all’emissione di carbonio dell’industria della carne o al suo consumo irragionevole di risorse naturali evidenzia anche l’urgente necessità di sviluppare una posizione marxista sul rapporto sociale con gli animali. La contraddizione tra capitalismo e natura ha raggiunto oggi una scala che minaccia la sopravvivenza della specie umana, alla quale la produzione industrializzata di carne fornisce un contributo significativo.
Oggi lo sfruttamento degli animali non è solo oggettivamente non necessario, ma irrazionale e contrario al progresso sociale. Provoca un consumo eccessivo e sempre crescente di risorse come l’acqua e la soia, che sono impiegate nella produzione di carne, latte e uova, e che non sono affatto distribuite razionalmente. I danni ecologici causati dall’abbattimento delle foreste pluviali, dalla monocoltura o dall’inquinamento dell’acqua sono già parzialmente irreversibili. Pertanto, chi crede di poter ignorare il problema della produzione di carne o addirittura di poterla trasporre in un contesto socialista è vittima dall’immagine ingenua e romanticizzata della produzione alimentare industrializzata che le lobby del capitale stanno promuovendo. La conversione dell’industria alimentare e della carne in una produzione ecologicamente sostenibile, vegana e socialmente pianificata, al contrario, sarebbe una richiesta socialista tempestiva.
È noto che l’utilizzo e il consumo di animali giocano un ruolo importante nella storia della civiltà umana. Ciò, tuttavia, non ne giustifica la prosecuzione fino ai giorni nostri: lo sviluppo odierno delle forze produttive non solo consente una partecipazione empatica alla sofferenza degli animali, ma rende anche possibile e necessario ristrutturare di conseguenza i rapporti di produzione. Le tesi qui sviluppate dovrebbero dimostrare che i marxisti non hanno ragioni plausibili per non farlo. Il fatto che il potenziale tecnologico del capitalismo consenta il progresso storico non dovrebbe nascondere il fatto che questo potenziale consente anche un’ampia distruzione: contiene la possibilità di una liberazione e allo stesso tempo di una totale reificazione, disprezzo e annientamento della vita. Se le moderne forze produttive non saranno più forze distruttive ma mezzi per favorire il progresso e il benessere, coloro che puntano a ciò devono unire le forze per cambiare i rapporti sociali, in modo che le forze produttive non siano più dispiegate per il profitto di pochi, ma piuttosto sviluppate e applicate a beneficio di tutti. Questo è il motivo per cui sosteniamo che i marxisti e i fautori della liberazione animale dovrebbero unire le forze nella loro lotta per un progetto rivoluzionario e autenticamente civilizzatore: la liberazione degli esseri umani, degli animali e della natura.
XV.
In contrasto con le concezioni idealistiche della storia, i materialisti storici presumono che non le idee, ma la lotta di classe sia il motore della storia umana. Questa lotta si basa sul fatto che all’interno delle società di classe gli interessi delle classi che si oppongono in modo antagonistico non possono mai essere conciliati - l’antagonismo può semplicemente essere mascherato, o, piuttosto, essere soppresso per mezzo di meccanismi ideologici (religione, politica, norme di legge etc.). La classe dominante si preoccupa di assicurare tutto ciò, ad esempio imponendo le proprie idee come fossero le idee dominanti.
Così come esistono differenze qualitative nelle funzioni che gli animali e i lavoratori salariati svolgono nel processo di produzione e nel processo del loro sfruttamento, anche il ruolo che gli animali ereditano nella lotta contro la classe dominante è diverso da quello dei lavoratori salariati. I lavoratori salariati possono organizzarsi per difendersi, pianificare scioperi e manifestazioni o pensare a una società liberata. Soprattutto, però, a differenza degli animali, possono analizzare le condizioni sociali in cui vengono sfruttati e dominati e, di conseguenza, progettare misure concrete per organizzare la propria liberazione. Per questa ragione la classe operaia può essere soggetto della propria liberazione. Gli animali, al contrario, possono essere solo oggetti di liberazione.
Quando si tratta della questione della liberazione degli animali, i marxisti tradizionali spesso sollevano questa differenza tra lavoratori salariati e animali. Sostengono che nessuna necessità storica per la liberazione degli animali può essere dedotta da una accurata analisi sociale. Questo è corretto: quando si tratta della sua attuazione, la liberazione animale è essenzialmente una questione politico-economica; la sua necessità non può essere derivata immediatamente da un’analisi del capitale. Ma su questo punto non c’è una significativa differenza rispetto all’abolizione della schiavitù salariale. Infatti dall’analisi dei rapporti capitalistici e dalla determinazione che la lotta di classe è la forza trainante della storia non si può altresì dedurre una lotta di classe organizzata dal basso. Anch’essa si dà solo se i lavoratori salariati prendono la decisione politica di compierla.
I marxisti rivoluzionari non analizzano solo il modo di produzione moderno. Prendono anche la decisione politica di lottare contro la loro sottomissione al capitale in base alle loro esperienze, alle loro sofferenze, alla coscienza che hanno dello sfruttamento capitalistico e alla conoscenza delle «condizioni materiali, che sole possono costituire la base reale di una forma superiore di società, una società in cui il principio fondamentale sia il pieno e libero sviluppo di ogni individuo», scrive Marx.
Chi ha assunto che la liberazione sia (del tutto) necessaria per porre fine alla sofferenza e allo sfruttamento socialmente prodotti, non ha motivo -se non ideologico- di escludere gli animali da questa impresa. L’analisi dei rapporti capitalistici come rapporti di sfruttamento e dominio nella società odierna mostra che la produzione di profitti capitalistici non si basa esclusivamente sullo sfruttamento dei lavoratori salariati, ma anche sullo sfruttamento degli animali (e della natura in generale). La produzione capitalistica, in cui l’interazione tra società e natura è organizzata in modo da massimizzare i profitti, mina simultaneamente le fonti originarie di ogni ricchezza: «la terra e l’operaio» (Marx). Una lotta senza compromessi per l’abolizione dei rapporti di produzione capitalistici deve quindi includere la lotta per la liberazione degli animali e della natura.
XVI.
Se dunque è stata presa la decisione di lottare per la liberazione, non c’è motivo di intraprendere da una parte una lotta per porre fine alla sofferenza socialmente prodotta e dall’altra di escludere gli animali da questo obiettivo (nella concezione di alcuni marxisti ciò dovrebbe continuare ad accadere perfino nel comunismo). Infatti, nonostante tutte le differenze qualitative nello sfruttamento dei lavoratori salariati e degli animali, sia gli uomini che gli animali hanno la capacità di soffrire, anche se ciò assume costantemente forme diverse. Sarebbe inconsistente e il prodotto di una falsa coscienza stabilire una distinzione chiara e assoluta tra esseri umani e animali per quanto riguarda questa capacità, cosa che è rimasta il loro tratto comune nonostante le graduali differenze che si sono sviluppate in un ambito storico-sociale.
A questo punto, molti compagni marxisti obiettano dicendo che tutto il discorso sulla sofferenza è moralismo e che la morale non può fornire le basi per una politica anticapitalista cosciente. Dopotutto, non si può combattere la borghesia con l’empatia o con appelli alla compassione, ma con un’organizzazione e una linea politica deliberata sviluppate sulla base di un’analisi concreta della situazione concreta. E questo è corretto, ma anche così fanno due errori: valutano male il significato storico e materialista della sofferenza e confondono l’esistenza genuina di una moralità con il moralismo borghese.
La sofferenza di cui stiamo parlando qui non è una categoria idealistica, ma storico-materialista. Non è un tipo di sofferenza come il mal d’amore o il mal di denti, ma una sofferenza che è necessariamente radicata nell’organizzazione della società, nei suoi rapporti di produzione, e di conseguenza può e deve essere alleviata e potenzialmente abolita. La volontà di fare tutto ciò è motore essenziale della lotta e della solidarietà di classe e parte integrante dello spirito del materialismo storico. Trascurare la sofferenza nella teoria marxista significa di conseguenza negare un suo elemento fondante.
Anche la politica, intesa nel miglior senso marxiano, è inizialmente motivata dalla morale, per il semplice motivo che, come abbiamo dimostrato, la sofferenza prodotta dallo sfruttamento e dalla schiavitù (salariale) è un catalizzatore nella ricerca di una possibile abolizione del capitalismo. La consapevolezza che la produzione di sfruttamento, oppressione, imperialismo e cose simili è inerente al capitalismo, o, in altre parole, che esso genera condizioni di sofferenza, induce i marxisti ad analizzare e criticare la società e, su questa base, a fare una politica a carattere rivoluzionario.
Possiamo quindi sostenere che anche i marxisti sono guidati da un impulso morale, essenziale nel decidere di diventare politicamente attivi e nel promuovere appelli politici. Eppure non si fermano qui. Piuttosto, sono consapevoli dei limiti politici ed economici dell’empatia e fanno dell’esperienza della sofferenza il punto di partenza di un’analisi storico-materialistica della società. In tal modo, derivano la necessità politica di organizzarsi non esclusivamente dall’esperienza collettiva di sofferenza degli sfruttati, ma dalla comprensione della posizione oggettiva che i lavoratori salariati occupano nel tessuto sociale, e di quali possibilità si danno per una lotta di classe dal basso.
In ciò consiste la differenza tra moralità e moralismo: la morale rivoluzionaria comprende che una «morale veramente umana che sta al di sopra degli antagonismi di classe e al di sopra di ogni loro ricordo diventa possibile solo in una fase della società che non solo ha superato gli antagonismi di classe, ma li ha persino dimenticati nella vita pratica» (Engels).
XVII.
Finché l’antagonismo di classe non sarà superato, persisterà anche l’alienazione dei lavoratori dal prodotto del loro lavoro, da se stessi, dal processo sociale di produzione e dalla natura. Nell’industria animale, tale alienazione deve essere estrema di modo che i lavoratori salariati siano in grado di far del male a creature capaci di soffrire nel processo di produzione, di lavorarle industrialmente, cioè di ucciderle. Nel quadro dello sfruttamento capitalistico degli animali, perdiamo la consapevolezza di avere un elemento essenziale in comune con loro: che anche noi possediamo un corpo tormentabile e che in ultima analisi essere un essere umano significa anche essere un animale. La soppressione della natura interiore degli esseri umani è sia una condizione che una conseguenza del modo capitalistico di organizzare il lavoro sociale.
XVIII.
Quando si tiene conto di tutto ciò, dobbiamo anche concludere che la stessa indignazione che sperimentiamo di fronte alla brutalità del capitalismo e che ci spinge a un’analisi marxista della società e alla resistenza è la stessa che sperimentano i fautori della liberazione animale di fronte alla sofferenza degli animali. Il nemico degli animali - il capitale - è anche il nemico degli esseri umani. Se si è marxisti, se si è anticapitalisti, si deve trasformare questo impulso di solidarietà in principio motore della propria vita, e comprendere e riconoscere che la posizione oggettiva degli animali all’interno del processo di produzione capitalistico è che fanno parte di quelle creature oppresse a spese delle quali la classe dirigente accumula ricchezza. La lotta di classe per la liberazione degli animali è la lotta per la liberazione del proletariato.